L’invito a riflettere sul burnout dei medici sollecita la raffigurazione di un ambulatorio o sala d’attesa piena di persone, alcune con espressione triste, un po’ persa, altre con tratti facciali che rivelano angoscia, un sonoro di sottofondo caratterizzato da tonalità basse e monotone. Si tratta di scenari che abbiamo visto molte volte, come utenti, quando accompagnavamo una persona cara malata al consulto dello specialista o dal medico di famiglia. È noto che spesso le richieste di cura dei pazienti possono essere dettate più da una condizione ansiosa che dal sintomo presentato: ansia, impazienza, intolleranza a qualsiasi disagio fisico, in alcuni casi perfino fissazioni di marca ossessiva sul funzionamento del corpo.
Essendo immersi in una cultura dove in genere si affrontano i problemi con l’aspettativa di ottenere sicure e rapide soluzioni tecniche, anche i malati (organici, psicosomatici o solo immaginari) chiedono al medico, sul quale hanno investito aspettative di soluzione, molto di più della sola risposta tecnica. Ogni malato, che a causa di un disturbo corporeo fisiologicamente regredisce e tende a trasferire sulla figura del medico – sostituto genitoriale – una proiezione di potenza, instaura con lui un rapporto articolato e vario e non gli possono bastare risposte mirate ad approfondimenti specialistici, né tanto meno un appoggio di tipo genericamente rassicurante.
Nonostante la professione del medico rivesta anche un ruolo di calmante sociale, insostituibile, gli atti di cura non possono risolvere i molteplici problemi, spesso inespressi, ma sottesi dall’aspettativa del paziente di scomparsa o riduzione di un sintomo fastidioso. Per il professionista l’impossibilità di accedere a risoluzioni ‘magiche’ di cura porta all’affollamento degli studi per una reiterazione di richieste, sale d’attesa piene che non consentono tranquille delucidazioni.
In questo periodo marcato da una grave pandemia, le manifestazioni di ansia dei pazienti si sono moltiplicate per giustificati timori di contagio e/o delle più o meno serie conseguenze di un contagio già avvenuto, percepite o solo fantasticate. Alcuni pazienti vivono il mondo esterno alle mura domestiche come una minaccia per il pericolo di cadere o ricadere nella malattia e di contagiare i congiunti: una nuova condizione di disagio, la cosiddetta ‘sindrome del capanno’ si è affacciata nell’immaginario collettivo a causa dell’emergenza sanitaria. Inoltre, nelle sale d’attesa vi è una moltitudine di pazienti che rivendica vari controlli biochimici e specialistici nei mesi scorsi bloccati e/o ritardati per via delle restrizioni imposte dallo stato di emergenza.
La tensione nel medico – sia per lo specialista che per il medico generico – sale e manca l’aria.
Nel suo stato d’animo componenti individuali, lavorative, sociali e familiari possono contribuire a far sorgere una condizione di burnout. Possono accentuarla un sovraccarico lavorativo, un ruolo professionale in branche della medicina non affini alle proprie competenze, scarse prospettive di crescita professionale, difficoltà di rapporto con i colleghi, una percezione di solitudine professionale. Infine, anche la facile mutuazione dei pazienti da uno specialista all’altro può essere fonte di arrabbiature o cedimenti frustranti.
Livelli elevati di burnout o stress correlato al lavoro, vengono rilevati negli operatori sanitari della generazione ‘millenial’, che si sono attivati nella professione dagli anni 2000 in poi. Tale sconfortante fenomeno contribuisce a ridurre in molti giovani medici il livello di soddisfazione nell’esercizio della professione.
La condizione di burnout del curante rappresenta un fenomeno complesso e multifattoriale che può essere rivelato da uno stato di tensione, ansia e depressione, difficoltà nel rapporto con il paziente per ridotta capacità empatica e sensibilità. Burnout che può pesantemente ripercuotersi sull’efficienza e l’efficacia professionale con una conseguente complessiva riduzione della qualità delle prestazioni. Un medico stressato e demotivato, cui ‘manca l’aria’ può infatti non avere la giusta concentrazione, essere distratto, meno attento alle esigenze del paziente, meno sicuro nella formulazione di ipotesi e di cure finalizzate ad alleviare il malessere, avere una ridotta capacità di ascolto dei bisogni del paziente.
Nel percorso accademico del medico la formazione prevede principalmente come centralità della cura una preparazione tecnico-specialistica capillare ed articolata e non una formazione alla relazione medico-paziente. Mentre gli orientamenti delle più attuali linee-guida inerenti la sanità indicano che l’atto della cura sia centrato sulla persona e non solo sulla malattia (World Health organization, 2016)1.
La ‘Person-centred care’ sottolinea l’importanza del coinvolgimento di operatori sanitari e pazienti come partners di un processo mirato al raggiungimento e mantenimento dello stato di salute tramite il sistema sanitario. Come stabilisce la prima legge italiana sul consenso informato e il testamento biologico, “Il tempo della comunicazione tra medico e paziente costituisce tempo di cura” rappresenta un momento fondamentale per la formazione dell’alleanza terapeutica. La legge non riguarda solo i diritti del malato ma va ad implementare proprio la relazione medico-paziente, come necessaria premessa alla validità delle decisioni terapeutiche2.
Gli attuali orientamenti della cura mirata soprattutto alla persona, paiono evidenziare l’opportunità che ogni medico sia sollecitato ad intervenire con il paziente, oltre che sul piano dell’ipotesi diagnostica e della eventuale prescrizione del farmaco, anche sul piano del bisogno profondo della domanda inespressa ma presente nella richiesta e presentazione di un sintomo. In tal senso si riconosce quel valore di comunicazione e quella componente di bisogno affettivo che la malattia e l’espressione del sintomo spesso contiene e veicola, ma che non sempre può essere colta.
Lo psicoanalista ungherese Michael Balint3, incaricato negli anni 50 ad intervenire come supervisore della condizione di stress dei medici inglesi (imputabile al frustrante esercizio del ruolo di curante durante la seconda guerra mondiale), ha sempre sostenuto che il prerequisito fondamentale per l’efficacia professionale è l’equilibrio dell’operatore. Secondo le sue ricerche, realizzate con l’attivazione di esperienze di lavoro in gruppo, la prescrizione risolutiva non può prescindere dall’utilizzo del medico-persona come ‘farmaco’, terapia insostituibile del disagio psico-fisico del paziente-persona. Secondo l’ottica balintiana è il medico il vero farmaco da prescrivere, un ‘farmaco’ che si attiva grazie ad una relazione che si viene ad instaurare tra medico e paziente in virtù di elementi che derivano da entrambi gli attori della relazione.
Alla luce di tali considerazioni e dell’attuale situazione aggravata dall’emergenza sanitaria (facile il richiamo ai tempi di guerra…) diventa essenziale che, ai fini di un effettivo miglioramento dei contesti di cura e prevenzione delle malattie, il sistema sanitario preveda anche l’aver cura del curante. Nel senso di favorire sistemi di prevenzione che consentano ad ogni medico nell’esercizio del proprio ruolo, che ha anche un valore di calmante sociale, di riconoscere tutti quei segnali di disagio/malessere che possono alterare pesantemente la sua efficacia professionale.
Balint ci ha trasmesso un modello – il Gruppo Balint – che consente al medico, grazie ad un lavoro di condivisione e scambio con i colleghi, di ripensare alle proprie attitudini legate ad un ruolo specifico esercitato in una relazione asimmetrica, come quella tra chi chiede (il paziente in cura) e chi è tenuto a rispondere (il medico curante). Tale percorso di formazione, se esercitato in modo continuativo ed impegnato, consente di riconoscere gli eventuali segnali di disagio del medico curante e di prevenire il rischio di burnout, come anche di raggiungere una maggiore soddisfazione nel proprio ruolo e autostima professionale.
1. World Health Organization, Framework on integrated, people-centred health services, 2016
2. Legge 219 del 2017 sul consenso informato e testamento biologico.
3. Michael Balint (1957), Medico, paziente e malattia, ed. G. Fioriti, 2014 Roma
Blog di informazioni mediche a carattere divulgativo redatto da medici Ultraspecialisti.
La dr.ssa Colombini è esperta in approfondimenti sui fattori emotivi e psicologici connessi alle patologie croniche quali il diabete mellito, le sindromi genetiche, le alterazioni dello sviluppo sessuale e transitorie come il rallentamento del percorso di crescita, cefalea, blocco deambulazione, disturbi fisici funzionali; inoltre, fonda il suo approccio clinico sulla ricerca per ogni individuo di eventuali connessioni tra sofferenza, comportamento e fattori emotivi non riconosciuti.